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I giochi di una volta / Lhi juecs d’un bòt

In questa sezione vorremmo inserire ricordi di giochi di una volta.

Inviate fotografie o anche semplici disegni con la spiegazione del gioco.



I cinque noccioli di pesca 

Si giocava con i noccioli di pesca: ci si procurava cinque noccioli di pesca puliti (dopo aver mangiato le pesche), si preferivano quelle in cui il nocciolo non aderisce alla polpa. Ci si sedeva a terra, in due, tre o quattro; si mettevano i 5 noccioli a terra, raggruppati, poi con una mano se ne lanciava uno in altro e lo si riprendeva con la stessa mano, Poi, tenendo in mano il primo nocciolo preso in precedenza, si lanciava il secondo, cercando di riprenderlo sempre con la stessa mano in cui si teneva il primo nocciolo. Si proseguiva quindi con il terzo, quarto e quinto nocciolo, cercando sempre di riprenderli con una mano sola, con cui si tenevano quelli presi in precedenza. Più noccioli si tenevano in mano, più era difficile prendere l'ultimo nocciolo lanciato senza fare cadere gli altri che si tenevano ed in questo era la difficoltà del gioco. Vinceva chi, per primo, riusciva a prendere il quinto nocciolo senza far cadere gli altri quattro. 

Lo stesso gioco si poteva fare anche con le biglie.

Ricevuto da Ivo Caldera



Muro 

In questo gioco si utilizzavano diversi tipi di oggetti: biglie, monetine da 5 lire, figurine ecc. Ci si metteva, in due o tre o più, davanti ad un muro, ad una distanza di due o tre passi, e si lanciava l'oggetto verso il muro, facendolo rimbalzare e facendolo cadere il più vicino possibile al muro. Chi rimaneva più vicino al muro vinceva e si prendeva gli altri oggetti lanciati. Spesso non era facile stabilire chi era il più vicino al muro e iniziavano delle lunghe discussioni. 

Ricevuto da Ivo Caldera



Le corse con le biglie 

Si compravano le biglie, che potevano essere di terracotta o di vetro. Per giocare si creava un circuito ad anello chiuso, nella sabbia o nella terra, con varie curve e con delle piccole sponde, non troppo alte. Si fissava la linea di partenza e si dava inizio alla corsa. Ogni giocatore dava una "stecca" con le dita alla sua biglia, cercando dosare la forza in modo da far procedere il più lontano possibile, senza però farla uscire dalle sponde del tracciato: in quel caso si tornava indietro da dove aveva tirato. Vinceva chi arrivava prima al traguardo e, se lo si era stabilito dall'inizio, il vincitore si teneva tutte le biglie che avevano partecipato alla corsa. 

Una variante di gioco con le biglie era quella di catturare le biglie colpendole a distanza. Si giocava in genere in due o tre. Ogni concorrente disponeva le proprie biglie a terra, possibilmente scegliendone il colore per differenziarle da quelle degli altri e tenendo una certa distanza dalle altre. Poi ogni giocatore faceva un tiro per volta cercando di colpire le biglie avversarie: se le colpiva le “catturava”, tenendole per sè. Altrimenti la lasciava sul terreno, sperando che non venisse catturata da un altro concorrente. Il gioco finiva quando veniva colpita l’ultima biglia e ne rimaneva una sola sul terreno di gioco. 

Ricevuto da Ivo Caldera



La lippa 

Per giocare alla lippa ci si doveva dotare di tre oggetti: la mazza, un bastone abbastanza robusto, lungo 80 - 100 centimetri, del diametro di 2 - 3 centimetri; la lippa, che era un piccolo cilindro, sempre di legno, del diametro sempre di 2 - 3 centimetri, ma lungo circa 20 cm, con le estremità smussate, e una pietra che si utilizzava da appoggio della lippa: questa si appoggiava sulla pietra in modo che avesse un angolo di circa 45 gradi con terreno e circa la metà sporgesse oltre l'appoggio. Si poteva giocare per strada, se non c'era passaggio, oppure in un prato o nel campo da calcio. stabilita la linea di partenza, con la mazza di colpiva la parte sporgente della lippa in modo da farla volare il più lontano possibile: per effetto del colpo sulla parte a sbalzo, la lippa volava girando velocissima su se stessa. Se possibile, chi ha lanciato la lippa in aria può cercare di colpire una seconda volta la lippa in aria in modo da prolungare il suo volo. Vinceva chi andava più lontano. 

Ricevuto da Ivo Caldera



Libera tutti 

Questo gioco è una variante del "nascondino" noto ancora oggi. Si giocava in gruppo, da quattro o più, il luogo preferito era un cortile, dove abbondavano i nascondigli e si poteva correre liberamente. Si faceva una conta per stabilire chi era "sotto" ovvero il primo a dover cercare gli altri. Ci si radunava in un punto dove si fissava la "tana", ovvero il punto da dove si partiva e dove si doveva tornare per "liberarsi". Il bambino che era "sotto", appoggiava la faccia sulle mani nel punto di tana, di solito contro un muro e cominciava a contare fino a sessanta o cento, senza poter guardare gli altri che, intanto, andavano a cercare un nascondiglio sicuro. Finito di contare, chi era "sotto" gridava «Via !» e andava a cercare i bambini nascosti. Quando ne trovava uno questo scappava e cercava di correre verso il punto di tana per liberarsi, prima che ci arrivasse chi era "sotto", pronunciando il suo nome; in questo caso era preso. Mano a mano tutti i bambini nascosti venivano trovati e presi o si liberavano. Se l'ultimo bambino nascosto riusciva a toccare tana gridando «Libera tutti !!» a quel punto tutti i giocatori presi erano liberati e chi era stato "sotto" doveva ricominciare una nuova ricerca. Se invece arrivava prima a tana chi era stato "sotto", il primo trovato e preso avrebbe iniziato la ricerca successiva. 

Ricevuto da Ivo Caldera



Mosca cieca 

Un bambino viene bendato con un fazzoletto (allora non si usavano i Kleenex, ma i fazzoletti di cotone) e fatto girare su se stesso per fargli perdere il senso dell'orientamento. A quel punto gli altri chiamano il bambino bendato, scappando per non farsi prendere. Vince chi rimaneva per ultimo, senza farsi prendere. Mi ha fatto un certo effetto vedere i bambini giocare a mosca cieca. esattamente come descritto, l'anno scorso, in un piccolo e sperduto villaggio sulle colline vulcaniche dell'isola di Tanna, nell'arcipelago delle Vanuatu, in mezzo al Pacifico e dall'altra parte del mondo. 

Ricevuto da Ivo Caldera




Acqua, fuochino, fuoco
 

È un gioco molto semplice, occorre un qualsiasi piccolo oggetto. Si coprono gli occhi con una benda ad un bambino, mentre un altro bambino nasconde l’oggetto stando attento a non fare rumore. Si toglie la benda al bambino ed a questo punto il gruppo degli altri bambini lo aiuta a ritrovarlo utilizzando le parole “acqua… acqua” se il cercatore si allontana dal nascondiglio; “fuochino …. fuochino” se si sta avvicinando; “fuoco… fuoco” se è molto vicino. Il bambino allora cercherà solo in quella zona finché lo avrà trovato. A questo punto si potrà ripartire con un altro giocatore. 

Ricevuto da Ivo Caldera



Alto 

In questo gioco un bambino rincorre gli altri per "prenderli": potrà farlo a meno che il bambino, che sta per essere preso, riesca a salire su un punto alto: ad esempio se è in strada può salire sul marciapiede, sul bordo di un'aiuola ecc. Il gioco finisce quando tutti i bambini sono stati presi e così si può ricominciare. 

Ricevuto da Ivo Caldera



Scupidù
 

Andava di moda tra bambini e ragazzi negli anni sessanta. Lo scupidù è un semplice intreccio a sezione quadrata o arrotondata che si realizza con due cordini, generalmente di diverso colore. Si usava in genere l’isolamento dei cavi elettrici (specie quelli telefonici bianchi e rossi che all’epoca non era raro trovare in spezzoni di avanzo gettati via). Si usavano per adornare in perfetto stile kitch i moschettoni usati come portachiavi, gli astucci o le cartelle scolastiche. 

Ricevuto da Ivo Caldera



Il rocchetto "carro armato" 

I rocchetti erano piccoli cilindri in legno, con bordi rialzati, utilizzati per avvolgere il filo del cotone di cui sono avvolti. Venivano venduti per utilizzare il filo con la macchina da cucire, sulle quali venivano infilati grazie ad un foro all'interno. Allora in ogni casa si cuciva: mia madre aveva una macchina da cucire Singer a pedale, pertanto capitava spesso di averne a disposizione, se non venivano certo gettati via. I bambini di ieri con i rocchetti costruivano giochi, frutto di una grande ingegnosità: anch'io li utilizzai più volte. Il più classico di queste realizzazioni era il trattore. Si tratta di una macchina semovente a cui la fantasia del bambino attribuiva il ruolo di trattore o di carro armato, a seconda delle inclinazioni personali, la tecnica di costruzione è infatti la stessa. Per la costruzione del trattore occorrono, oltre al rocchetto, una scheggia di sapone o un po' di cera, due legnetti di cui uno più lungo e l’altro più corto un elastico. Con un coltellino si incidono piccoli denti sui bordi del rocchetto, simulando il cingolato del trattore, con la cera o il sapone si prepara un piccolo disco forato che avrà il ruolo di frizione. A questo punto si infila l’elastico attraverso il foro del rocchetto e lo si trattiene da una parte con il legnetto più corto fissato in una piccola scanalatura. Dall’altra parte si inserisce a ridosso del disco forato di sapone (la frizione). Il gioco è fatto, il trattore può ora funzionare, basta roteare il legnetto più lungo affinché l’elastico si attorcigli. L’energia caricata sarà lentamente liberata grazie all’azione frenante della cera o del sapone. Il legnetto più lungo appoggiandosi sul terreno spingerà in avanti il trattore in grado di affrontare anche piccole salite. 

Ricevuto da Ivo Caldera



La slitta
 

A Roccavione la neve, d'inverno, non mancava mai. Essendo a 650 metri d'altezza e vicini alle montagne, la neve arrivava a fine ottobre, di solito, o al massimo in novembre e copriva il paese e tutta la campagna con un manto che, come minimo, era alto una spanna. L'arrivo della neve era un avvenimento, per i bambini. Se da una parte bloccava alcuni giochi, come andare in bicicletta o giocare a pallone, dall'altra ne permetteva di nuovi, come prendersi a palle di neve, "pattinare" sul manto scivoloso di neve schiacciata dalle macchine sulla strada (si "pattinava" con le scarpe: i pattini non c'erano !), o andare a slittare. Per questo ovviamente era necessaria una slitta. Papà me ne regalò una, penso negli ultimi anni delle elementari. L'aveva ordinata ad un artigiano, che l'aveva costruita con un legno chiaro, quasi bianco, con un sedile di paglia intrecciata di colore giallo/verde, come il sedile di una sedia. I effetti era una sedia bassa con il pattini, senza nessun tipo di regolazione o di freno: per quello si usavano i piedi. Il pomeriggio, finita la scuola e fatta la merenda, si andava al Giardin' d'Ara, che era un bosco, alle falde della collina di San Sudario, degradante un una piccola area pianeggiante (successivamente quest'area fu trasformata in parco pubblico, con altalene, giostra e scivolo per i bambini e panchine. Allora c'era solo il bosco, così passavamo il tempo risalendo il pendio del bosco con la slitta e lasciandoci scivolare lungo il pendio. Dopo qualche discesa, si formava una pista di neve battuta, sempre più veloce e i ribaltamenti non erano infrequenti. Dopo le prime discese a mezza altezza, si cercava di salire sempre più in alto, perchè la discesa diventava, così, più veloce e più lunga. 

Una variante della slitta era la "brassera". Questa era una grossa slitta che veniva utilizzata dai contadini per trasportare la legna dal bosco al piano, quando c'era la neve. La brassera aveva due grandi pattini e due assi trasversali, per appoggiare la legna. C'era anche una lunga pertica, che veniva usata per "guidare" il mezzo, nella discesa. C'era un bambino un po' più grande, che ogni tanto prendeva la brasera del padre, così andavamo a farci delle discese "speciali", sulla strada che saliva a San Sudario e oltre. La strada era scavata nel terreno del bosco, in modo da realizzare una specie di pista da bob, per intenderci, nella quale veniva fatta scendere la brassera carica di legname. Noi trascinavamo la brassera i tre, quattro o cinque, spingendola su per la strada, il più in alto che riuscivamo: ci voleva almeno un quarto d'ora. Poi salivamo, sedendoci sugli assi trasversali, che usavamo come panca, e via ! La brassera cominciava a scendere sempre più veloce, scricchiolando delle curve, mentre noi urlavamo come pazzi: un minuto, forse due e la discesa finiva sull'ultimo rettilineo della strada al Giardin d'Ara, da cui non ci si pensava su molto per ripartire. Qualche volta ci ribaltava o si andava a sbattere contro qualche masso al bordo della "pista", ma nessuno si faceva male e si ripartiva. La brassera era il nostro Ottovolante, oggi roller coaster, che bastava a rendere la nostra giornata "speciale" e di cui avremmo parlato per ore, ricordando i momenti più eccitanti. Se ci veniva fame, c'era sempre qualcuno che tirava fuori dalla tasca dei pantaloni le "papüve". che erano le castagne bollite con la buccia: si aprivano con i denti e si mangiava la polpa interna morbida e dolce, sputando la buccia. 

Ricevuto da Ivo Caldera

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