Storia della cascina
A Robilante c'è la Cascina, una piccola borgata ai piedi della collina. È vecchia come Matusalemme, ma rispettata da chi lì è cresciuto e ha messo su famiglia. Allegri, laboriosi e canterini sono: i Giordano, i Giraudo, i Vallauri, i Sordello e quelli di Annamaria. La Cascina era proprietà del conte Nicolis che poi l'ha venduta per disperazione perché si dice che i suoi affari andavano a rotoli. L'hanno acquistata in cinque, l'hanno divisa e se la sono tenuta. La Cascina del Conte è separata da un vallone ed un ponte: il vallone del Prete che, all'ombra dei suoi castagni, porta l'acqua al bosco di Pinotu Forné. Questo vallone parte da Tetto Fantino, passa a En Cuerni, a La Ciapera, attraversa il piano e poi si riversa nella gora del mulino. Al vallone del Prete passa la strada del Tetto Violetta, accanto alla rocca Giuana, la proprietà di Gia Mai, la piccola vigna, Martinas, il Pendun e la miniera dall'altra parte del vallone. La miniera, quando funzionava, tanti anni fa, era diretta dal signor Cosso sotto una ditta di Milano e quei pochi operai guadagnavano un pezzo di pane. Erano: Antonio Romana, Lorenzo Dalmasso, Battista Macario, Giacomo Vallauri, Federico Dalmasso, Giacomo Maomero. Erano senza sindacato, ma lavoravano proprio tutti. Accanto alla miniera c'è il bosco Fus, con le sue sorgenti, che fornisce l'acqua a tutta la gente. Alla Cascina c'è anche un pilone con la Madonnina; lì, all'ombra delle robinie, protegge le due vie. Questo pilone l'aveva costruito Giacomo Sordello, ma dopo molti anni i muri cadevano in rovina. Allora i nipoti, per tradizione e con buona volontà, ne hanno fatto uno nuovo tre metri più in là. Lì accanto ci sono due cortili dove si faceva l'aia: scopavano, spargevano e lisciavano la bovina, che da secca era meno sudicia, poi con i correggiati trebbiavano il grano, affastellato in covoni, per farne del pane. La terra della Cascina parte dalla Brundana, in fondo al bosco Margò, giunge dalla ferrovia, oltre la strada principale, fin lassù dove ora allevano i vitelli. Su questa terra di Giacomo Sordello i Barale di Roccaforte avevano costruito il mulino; poi hanno aggiunto la sega e la cabina. Quella ruota idraulica forniva luce elettrica alla chiesa e a quelli della Cascina. Avevano soltanto una lampadina per famiglia, un po' era per risparmiare e un po' perché mancava la potenza. E c'erano pochi mestieri: contadino o boscaiolo. Nei boschi raccoglievano castagne, pascolavano l'erba, seminavano la segale e andavano per funghi. Nel piano falciavano con la falce fienaia, aravano con l'aratro, sarchiavano con la zappa, seminavano una mescola di frumento e segale, mais, patate, fagioli e pure la canapa. Piantavano gelsi, pruni e meli aciduli, quelli della lira, quelli dolci-bianchi e i martin sec. La foglia dei gelsi era cibo per i bachi da seta che venivano tenuti sui ripiani. Quando i bachi dalla quarta si svegliavano, era un'esagerazione quanto mangiavano. I bachi con la bava formavano i bozzoli salendo sull'erica legata a mazzetti. Era una gran meraviglia da vedere: i bozzoli gialli come l'oro, talmente ben messi e composti che valevano uno scudo l'uno. La canapa serviva per fare la tela. La seminavano in primavera, d'autunno la sradicavano, la sceglievano, la legavano e la mettevano a macerare. Trascorso quel dato tempo, la estraevano e la facevano soleggiare. Arrivato l'inverno la pestavano su un toppo spaccato. Poi con gramole e scapecchiatoi facevano la canapa, i capecchi e le stoppe. La filavano con rocca, filatoio, fuso e portafusi e al guindolo facevano la matassa. Poi portavano a fare la tela del nove o del sette alla tessitrice di Tetto Giardinet. Tre volte all'anno facevano il bucato: mettevano le lenzuola insaponate dentro un grosso mastello; sopra allargavano il ceneracciolo e lo coprivano con cenere setacciata. Lì accanto con il calderone facevano bollire il ranno fino a sera, poi sciacquavano tutto al fossato. Vivevano assieme grosse famiglie padre, madre, nipoti, nuore e figlie. La suocera teneva il mestolo, il nonno teneva la pace, la nuora diceva di si, ma arricciava il naso. La chiamavano armonia, ma, diciamolo pure, c'era anche qualche litigio. Mangiavano pancotto, tagliatelle, polenta e castagne, bevevano acqua fresca, sidro o vino di uva fragola. Accendevano il camino, il treppiede sotto la pentola ed il paiuolo di ghisa appeso alla catena. Quando qualcuna aveva la pentola rotta o si era staccata la maniglia, portavano tutto all'abbeveratoio. Lì veniva ogni tanto lo stagnino di Borgo che con soffietto, stagno e sgabello lustrava i mestoli, stagnava i paiuoli di rame e tappava i forellini. Tenevano il tostino appeso alla cannicciata, facevano i tomini con il latte della pecora. Quando vendevano i capretti, si riservavano il presame. Facendo il burro toglievano il latticello che serviva ancora per fare la ricotta. Su questa terra i nostri vecchi hanno allevato grosse famiglie, hanno allevato tutti, maschi e femmine. E siccome erano tanti, ne coricavano due per culla, un indietro, l'altro avanti. I più grandi venivano coricati assieme sul pagliericcio o sul fienile. I più piccoli prendevano il latte alla tettarella, portavano la gonna fino a quando capivano da loro se erano maschi o se erano femmine. Quando andavano a scuola, oltre alle pulci, prendevano anche i pidocchi, li raccoglievano con una pettinella, facevano bollire i vestiti e bruciavano le foglie del pagliericcio. Le ragazze filavano la canapa, alcune facevano le sarte e, per ripararsi dal freddo alle dita, Antonio Romana faceva il calzolaio. Giacomo Vallauri faceva il falegname, Adolfo Mignani faceva le barche, Donato Giordano faceva interesse, Sebastiano Giordano andava alla fiera, Giacomo Vallauri raccontava le barzellette, oh, erano davvero tutti occupati! I giovanotti d'inverno scendevano la treggia e si davano da fare da mattina a sera, ma se capitava l'occasione giocavano a carte da sera a mattina con buonanima di Pietro Landra e Marcello Pettavino. La sposa portava lo zendale, l'abito nero, il giubbotto plissettato. Lo sposo era lui pure elegante: un abito completo, le scarpe di vacchetta ed il cappello a bombetta. Quando nasceva un bambino nel giro di otto giorni lo portavano a battezzare, con una coperta per bambini, pezze e fasce lo legavano come un salame, una cuffia in testa, quindi lo ponevano dentro il porte-enfant. Gli uomini portavano il cappello bordato, il gilè con l'orologio nel taschino; i pantaloni di velluto con la fibbia che andava bene a metterci l'accetta. E Bartolomeo, mio marito, andava a lavorare alla cava di Vernante, su e giù in bicicletta, una mantella per il freddo, zaino a spalle, borraccia a tracolla con dentro pane e gorgonzola. Le nonne avevano la pettinatura con la crocchia, portavano il corpino con sotto il bustino, la gonna lunga con la cintura a martingala il grembiule, reggicalze e calze di lana e le scarpe con i legacci di cuoio e poco tacco. E quando, trenta o quarant'anni fa, vegliavano ancora nelle stalle chiacchieravano e raccontavano frottole; mio nonno, Giacomo Romana, nel pagliericcio cantava le sue canzoni. Il più benestante della Cascina era un bell'uomo con i capelli riccioluti: Dunatin d'la Cascina. Lui cantava "forte e virili pectore" e teneva anche la monta taurina.. Quelli della Cascina erano chiamati i bigotti, almeno avevano un titolo. Allora andavano sempre a piedi e arrivavano sempre in tempo; adesso andiamo in carrozza, ma più di una volta arriviamo tardi a messa. C'era l'usanza, il mese di Maria, di trovarsi tutte le sere all'edicola, dire un pezzo di rosario e poi cantare alcune canzoni A carnevale ci si mascherava. Divertimenti non ce n'erano e ciò che faceva piacere si dice che facesse anche peccato. Abbiamo spannocchiato mais, abbiamo portato gli zoccoli, abbiamo mangiato pane ammuffito e quanto ne abbiamo mangiato! Dopo la guerra le cose sono migliorate: viviamo in un'altra maniera, ma non disprezziamo mai la terra. È proprio tutto cambiato, allora avevamo la fontana lontano ed i servizi igienici separati; ora l'acqua è pronta da prendere ed i servizi dentro casa. La chiamavano Cascina del Conte, quindi Cascina Soprana e Sottana, ma che sia sotto che sia sopra ci siamo sempre noi della Cascina. Siamo oltre il duemila, ma la storia è stata combinata e scritta alcuni anni prima da me, Romana Margherita, ma tutto ciò che vi ho raccontato è la pura verità.