home » Roaschia » Usi e costumi » La storia dei pastori transumanti

La storia dei pastori transumanti

Pochi sanno che Roaschia è stato il più grande paese dei pastori transumanti. Il paese è sistemato in cima ad un vallone sulla destra orografica della Valle Gesso, immerso in una manciata di terra e selve. Arrivando da Roccavione, il primo “téit” che si incontra è quello dei Sabbioni; nella strettoia alla confluenza tra il Torrente Gesso ed il Rio di Roaschia vi è Tetto Bandito, famoso per le sue Grotte e deve il suo nome, a quanto si racconta, al fatto che sisa stato fondato in tempi remoti da agenti bandite altrove e lì rifugiatesi. Man mano la strada sale ... a destra del Rio vi è Tetto San Bernardo che nei primi anni del Novecento contava una settantina di abitanti e un vallone omonimo dove si trovano diversi tetti. Si arriva poi a la Vila, il paese. Sulla destra, a mezza costa, sgorga la sorgente Dragonera, in una grotta, da una polla a forma d’occhio, fuoriesce un’acqua limpida e pura. Proseguendo per la strada asfaltata che sale sul versante destro idrografico del vallone, si arriva a Tetto Chiotti, la maggiore borgata del Comune, che conserva ancora in bella vista le case costruite in pietra locale. Dai pochi documenti esistenti si sa che fin dal 1750 circa ebbe inizio lo spostamento delle greggi dal monte al piano. Roaschia in quel periodo contava 1.500 abitanti circa. Dai racconti del nonno paterno, Giorgio Fantino classe 1888, a sua volta ascoltati dal padre, Bartolomeo Fantino venni a conoscenza che la mia famiglia iniziò la transumanza nel 1800. Una parte della popolazione che già possedeva ovini diede vita ad una pastorizia nuova: con modeste greggi ed un asino da soma si spinse nel Cebano e nel Monregalese, sin sui versanti liguri. Questi ultimi vennero abbandonati più tardi perché l’erba veniva mal assimilata dagli animali e ne provocava una moria: molti ovini erano colpiti dal cosiddetto “balurdùn”, un disturbo consistente nella perdita dell’equilibrio e poi nella successiva morte. Si iniziò anche via via a transumare nella pianura cuneese, sulle rive dello Stura, nel cheraschese, nell’albese, poi giù sulle sponde del Tanaro, ad Asti, Alessandria, Piacenza, Pavia ed anche oltre le rive del Po. Il ceppo rimanente alla Vila era formato dai contadini, boscaioli e piccoli artigiani bravi soprattutto nella costruzione di case in pietra e di tetti in lose o in paglia di segale. Vi erano anche costruttori di attrezzi agricoli quali rastrelli, zappe, carriole, scale di legno a pioli, slitte per il trasporto del legname nei mesi invernali (le cosiddette “braseres”). I giovani non pastori, all’autunno oltrepassavano il confine francese in cerca di un qualsiasi lavoro, per poi tornare in primavera con qualche scudo in tasca. Tanti non tornavano più: si formavano così nuove famiglie di roaschiesi nell’entroterra di Nizza e della Costa Azzurra. Quelli che non svernavano venivano chiamati dai pastori con l’epiteto üvernënch. Il concentrico di Roaschia si svuotava d’inverno. Nei primi anni del Novecento i nuclei famigliari di pastori transumanti oltrepassavano le duecento unità. Prima della grande guerra gli abitanti di Roaschia erano circa duemila e si stima una presenza di circa ventimila ovini. I pastori transumanti con i vari spostamenti da monte a valle, da pese a paese, diedero vita ad un linguaggio particolare, appropriato al mestiere che facevano, con marcati cambiamenti nei nomi assegnati alle cose, alle persone ed alle situazioni. Tutto questo faceva sì che, in presenza di estranei, di ghéllu (proprietari terrieri, padroni di cascinali), il loro parlare non fosse compreso. Si creò così un vocabolario nuovo, spesso non compreso neanche dagli stessi compaesani, gli “üvernënch”. Fino agli ’50 e ’60 del Novecento a Torino, Genova, Milano, Pavia, Alessandria, ... non vi era negozio che non avesse in bella mostra i “seyras” (le ricotte) di Roaschia.




GRAFIA o LINGUA

italiano occitan